considerazioni sulla pena di morte “se esaminiamo il problema della pena di morte sotto il profilo sociale e civile, rileviamo che le ragio

Considerazioni sulla pena di morte
“Se esaminiamo il problema della pena di morte sotto il profilo
sociale e civile, rileviamo che le ragioni portate per giustificarla
sono essenzialmente tre: la protezione della società, la dissuasione e
l'espiazione-compensazione del male fatto.
La società - si dice - ha il dovere di proteggere i suoi membri contro
i criminali, specialmente quando si moltiplicano delitti
particolarmente atroci, come quelli perpetrati dai terroristi. Ora,
data l'inefficacia d'ogni altro mezzo di protezione (in primo luogo,
del carcere), non resta alla società come mezzo veramente efficace di
difesa se non la pena di morte. Si aggiunge, poi, che questa, per il
timore che incute, è lo strumento più efficace per dissuadere i
criminali dal commettere gravi delitti. Si afferma, infine, che chi
uccide una persona innocente deve "pagare" l'assassinio con la propria
vita: solo così si fa giustizia e si ristabilisce l'ordine violato.
Che cosa pensare di queste affermazioni?
Rileviamo, in primo luogo, che la società ha il dovere di proteggere i
suoi membri contro i criminali, ma non può farlo con qualsiasi mezzo,
bensì con quei mezzi che, da una parte, siano efficaci e, dall'altra,
siano "umani". La società, cioè, deve proteggersi dalla criminalità,
mettendo il criminale in condizione di non poter fare del male agli
altri; ma per raggiungere tale scopo non c'è bisogno di ricorrere alla
pena di morte; basta rendere le carceri più sicure (ciò che non
significa più crudeli). E’ questa la maniera "umana" di protezione
della società; quella di proteggere la società con l'eliminazione
fisica del delinquente è "barbara".
In secondo luogo, rileviamo che la pena di morte non ha la forza di
dissuasione che comunemente le si attribuisce e che costituisce
l'argomento più forte che si porta a suo favore, così espresso da
Montaigne: «Non si corregge colui che è impiccato; si correggono gli
altri per mezzo suo». Infatti la storia della criminalità moderna ci
dice, per citare il parere di JM Aubert, che «è impossibile stabilire
un legame certo tra l'abolizione della pena di morte ed un aumento
della criminalità. Numerosissime inchieste internazionali sii questo
soggetto lo provano; in particolare quella del Consiglio economico e
sociale dell'ONU mostra che la soppressione della pena di morte non
comporta un'evoluzione sensibile della criminalità. In molti Paesi che
hanno abolito la pena di morte o che non la mettono più in pratica, la
criminalità non è aumentata, nonostante la crescita della
popolazione».
Del resto, se si esaminano i casi concreti, ci si accorge che la
prospettiva di incorrere nella pena di morte non è un freno per i
criminali, tale da indurli a non commettere gravi delitti. Alcuni di
essi, infatti, pensano di poter sfuggire alla cattura e di restare
impuniti oppure ritengono che, anche nel caso che fossero presi, in un
modo o in un altro potranno sfuggire alla morte. Altri sono talmente
fanatizzati dall'ideologia che la prospettiva della pena di morte non
incute loro paura. E’ il caso dei terroristi, per i quali la morte
entra nel conto della loro milizia rivoluzionaria; essi sono
consapevoli di poter perdere la vita nelle loro imprese criminali, ma
non per questo desistono dall'uccidere. Quale potere di dissuasione
potrebbe, quindi, esercitare sii di essi la prospettiva della pena di
morte?
In realtà l'errore che si commette quando si parla di criminali e di
terroristi è quello di attribuire loro il modo di pensare e di
giudicare delle persone normali. Invece, la psicologia dei criminali
(e, in modo particolare, dei terroristi) è profondamente alterata,
perché è distorta, o dalla passione, o dall'ideologia e dal fanatismo.
D'altra parte, usare la pena come mezzo di dissuasione significa usare
la persona del delinquente come mezzo per ottenere un fine. Ora ciò è
in contrasto con la dignità della persona umana, la quale deve essere
sempre fine e non può mai essere considerata e usata come mezzo.
Rileviamo, in terzo luogo che, infliggendo la pena di morte a chi ha
ucciso una persona innocente, non si fa giustizia e non si
ristabilisce l'ordine violato. Si farebbe giustizia se con la morte
dell'assassino si rendesse la vita a chi l'ha perduta; invece, con la
pena di morte non si rende la vita all'innocente, ma la si toglie pure
all'assassino. C'è, dunque, una compensazione, ma è nella morte, non
nella vita; nel "male", non nel bene. Al male fatto si aggiunge un
altro male, poiché, indubbiamente, infliggere la morte - sia che
l'infligga un assassino, sia che l'infligga la società - è sempre
obiettivamente un male. Si può, dunque, parlare di vendetta, di legge
del taglione - "vita per vita" -, ma non di giustizia, se non nel
senso negativo di "rendere male per male". Con la pena di morte,
dunque si fa giustizia, ma solo in apparenza.
Tanto meno si ristabilisce l'ordine violato. Questo, infatti, si
ristabilisce quando il reo si pente del male fatto e si rimette sulla
buona strada facendo il bene; non si ristabilisce, invece,
approfondendo il solco dell'odio, con l'aggiungere ad una morte
(quella dell'innocente) un'altra morte (quella del suo assassino). In
altre parole, il male va compensato non col male, ma col bene.
Altrimenti, non si ristabilisce l'ordine, ma si accresce il disordine.
Presi singolarmente, questi argomenti contro la pena di morte possono
non apparire del tutto convincenti o lasciare adito a qualche
perplessità. Non a caso si è sempre discusso e ancora oggi si discute
se sia possibile dimostrare che la pena di morte vada chiaramente
respinta in ogni caso come immorale. Tuttavia, se vengono presi
globalmente, ci sembra che la convergenza di tanti argomenti contro la
pena di morte costituisca una prova, che a noi pare particolarmente
solida e convincente."
(P. B. Sorge, Considerazioni sulla pena di morte, in «La Civiltà
Cattolica», 3137, 7 marzo 1981)

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